Mai più mi capiterà
Gianfelice Facchetti ha gli stessi occhi verdi del padre Giacinto, l’equilibrio morale, l’intelligenza, e come lui è un uomo di grande valore. A sua differenza, ha scelto la carriera teatrale.
Gianfelice, porti un cognome importante. Come vivi quest’eredità?
I vantaggi e gli svantaggi sono sempre sui piatti della bilancia. Dipende da cosa cerchi.
Chi da te si aspettava il calcio è rimasto spiazzato nel trovarsi davanti un bravo attore teatrale…
Il fatto di aver scelto di fare l’attore è una conseguenza di tre anni di studio. All’inizio si trattava solo di una curiosità, non sapevo che sarebbe stata la strada della mia vita. Era però qualcosa che mi realizzava, nonostante non avessi obiettivi di notorietà e fama. Infatti, dire di «fare l’attore» è talmente generico… Oggi la maggior parte degli attori sono sconosciuti, perché agli occhi del pubblico emergono solo quelli televisivi.
Ti è mai pesato essere “il figlio di”?
Il mio cognome non mi ha tolto niente, ma neanche aggiunto qualcosa. Certo, a fare un film sul calcio sono “il figlio di”, ma non mi crea problemi. Al limite puntualizzo di non voler strumentalizzare la storia.
Cosa intendi dire?
Come è successo, ad esempio, quando papà si è ammalato: mi sono ritirato dalla mia agenzia di cinema. Mi avevano proposto di partecipare a Ballando con le Stelle, ma in un momento del genere non me la sono sentita.
E come hai vissuto il rapporto con il calcio?
Il calcio è un riflesso di vita: ci sono nato in mezzo. L’ho respirato e vissuto da subito. Papà ha smesso quando avevo 4 anni e fino ai 20 ho giocato anch’io nelle giovanili dell’Atalanta. Il calcio mi ha dato una forma mentale di approccio alle cose che trovo sia identica all’impostazione che dà il teatro.
In cosa trovi somiglianze tra questi due mondi?
È tutto un parallelo. C’è la stessa metodicità indispensabile, ad esempio. Le prove si possono equiparare agli allenamenti, c’è lo spirito del divertimento, il lavoro di squadra, il sacrificio. Essere stato formato allo sport mi ha dato molto.
Cambieresti qualcosa del tuo passato?
A tornare indietro nel tempo rifarei tutto, e con gli stessi tempi.
Come mai hai lasciato il pallone?
Il mio abbandono al calcio è stato dettato anche da incontri «sciagurati»: a 13 anni avevo un allenatore che mi ha fatto giocare una sola partita in campionato. Di questo modo, quando hai quell’età, perdi lo slancio, detesti quel mondo. E poi sentivo di voler fare altro.
Cosa ricordi invece con piacere?
Ho trovato anche persone positive, come Cesare Prandelli. Ma dato che non sono tutti come lui, e la mia passione non era poi così forte, non ho continuato nel calcio.
Tuo papà come ha vissuto la tua scelta di vita?
Papà per primo ha capito che ho preso quello che c’era da prendere. La sua unica preoccupazione era che non facessi una vita dissoluta.
Che tipo di padre è stato?
È stato un papà molto attento alle esigenze di ciascuno di noi (Gianfelice ha tre fratelli: Luca, Barbara e Vera, ndr). A volte era anche duro nelle sue prese di posizione, ma dava sempre la possibilità del confronto. Veniva anche in nostro aiuto. Quando ha capito che il teatro era effettivamente la mia strada, veniva spesso a vedermi in spettacolo, nonostante non avesse un particolare amore per il teatro. Era però il mio primo tifoso.
Cosa pensi del calcio di oggi?
Resta sicuramente uno sport con potenzialità pazzesche dal punto di vista formativo, educativo e anche comunicativo, perché trasmette tanti messaggi. Le squadre, i giocatori, si fanno portavoce di eventi, come è successo ultimamente con la Thyssen di Torino: la solidarietà in campo è stata pazzesca. Ma il calcio in genere, per come si è evoluto - parlo di comunicazione, televisione, stampa, sponsor -, ormai ha una serie di sovrastrutture che rende difficile ritrovare l’essenza che ricordiamo noi da bambini. C’è un vortice di fattori incredibile dietro. Guarda anche le semplici magliette di gioco: ora sono una patacca di scritte, e c’è sempre il rischio di confusione, come Calciopoli ha dimostrato, tra interessi e illegalità.
Chi è disposto a fare un passo indietro?
Secondo me, nessuno. Ci sono troppi interessi di base. Le contaminazioni tra sport e manipolazione del calcio per fini politici e di potere sono tantissime. Ho fatto anche un film su questo, Bundesliga ‘44. Il politico, ad esempio, sfrutta la popolarità dello stadio per avere visibilità. La responsabilità politica sarebbe tenersi lontano dalle strumentalizzazioni, ma non succede e si usano anche queste carte.
Qual è il tuo rapporto con l’Inter?
Da quando papà è mancato c’è stata spesso la testimonianza di stima e affetto, non fine a se stessa, ma in modo concreto, coinvolgendo me e la mia famiglia. La cosa più significativa è stata la partecipazione al Centenario.
Com’è andata?
Mi hanno proposto di dare una mano per il raduno degli ex. Era una cosa che avrebbe fatto piacere a papà, io ero libero dal teatro e ho accettato di collaborare. La società voleva dare un messaggio di continuità tra passato e presente, così mi hanno chiesto di aprire le celebrazioni. È stato un bellissimo momento. E, teatralmente parlando, irripetibile: mai più mi capiterà di intervenire al cospetto di 70.000 persone, in un contesto così particolare.
Vai spesso allo stadio?
Quando posso. Ma preferisco seguire le partite «a distanza». Sono stato lontano dagli stadi a lungo tempo, dopo il fumogeno su Dida: ho vissuto la paura nello stadio.
Hai dichiarato di non credere in Dio, ma di credere fortemente nel valore dell’opera umana…
Confermo. Sono agnostico, non so se Dio esiste oppure no, ma credo nel buono che ognuno può costruire qua, che va oltre il proprio passaggio. Il valore dell’opera umana è dimostrare che non tutto si disperde.
Hai interpretato un ruolo nel film Il grande Torino, sul calcio…
È stato il mio primo film tv, in due puntate. Abbiamo raccontato la storia d’Italia, di un Paese piegato dalla seconda guerra mondiale, che si identifica interamente in una squadra di calcio. È il concetto di quello che la squadra rappresenta, come parlare dell’opposizione Bartali-Coppi.
Cosa ci racconti del tuo ultimo film, 13° uomo?
Era una sceneggiatura che già esisteva, mi hanno coinvolto nel ruolo di portiere. È stata una bella esperienza con i giovani dell’università. È costato poco, sono stato a contatto con loro e ho girato il film in città.
I tuoi prossimi impegni?
Sto imbastendo una produzione teatrale sul mito di Icaro che aprirà al Teatro dell’Arte a ottobre.
Niente televisione?
Mi fa molta paura l’idea che la mia faccia diventi un qualcosa di sempre riconoscibile. Perdere la possibilità dell’anonimato mi spaventa. Non critico il mezzo, né lo demonizzo, anche se vivo senza tv da dieci anni. Le partite vado a vederle con gli amici al bar. In video guardo solo dvd.
A cosa non sai dire di no?
Rinuncio alla tv in cambio del piacere dell’incontro. Le relazioni per me sono una cosa molto importante. Pensare a luoghi dove accadono cose, si incontrano persone…
…è una cosa molto poetica…
È una cosa molto bella e umana.