English German Russian Spanish

Codice rosso

francesco occhettaCiviltà Cattolica, la prestigiosa rivista dei gesuiti italiani, nel numero del 19 gennaio 2008, propone ai suoi lettori una riflessione sui valori del calcio a firma di padre Francesco Occhetta.  

L’analisi del giornale parte dalla constatazione che il calcio sta vivendo un momento di crisi, sottoposto per un verso alle logiche del denaro e dello spettacolo e per un altro esso stesso ha perso di vista «le inquietudini e le domande che da sempre lo nutrivano». Vale a dire dubbi intorno al tipo di persona da formare, quali valori proporre e infine in che misura può essere scuola di vita per aiutare nella crescita complessiva della persona. L’apice della crisi è individuato proprio nel momento culminante di un successo sportivo nazionale: la conquista della coppa del mondo in Germania nel 2006. In questo frangente si fa notare, si è svilito il valore etico della vittoria. Proprio perché il trionfo è coinciso con le inchieste giudiziarie su un sistema occulto di potere da un lato e con ingiustificabili liti fra giocatori (si cita lo scontro in campo fra Zidane e Materazzi) dall’altro.

Occhetta individua le ragioni della crisi nel mondo del pallone in motivi di ordine finanziario e istituzionale ma soprattutto nelle cause di natura etica e antropologica che vanno a incidere nell’essenza stessa del gioco del calcio. Secondo il gesuita sta cambiando il fine del calcio professionistico: la ricerca a tutti i costi del successo stimola comportamenti sleali, tentativi di corruzione, l’abilità di ingannare, la volontà di prevalere a ogni costo sull’altro giocatore fino a ricorrere stabilmente al doping e agli anabolizzanti come possibilità di superare i propri limiti. Nell’articolo si citano anche alcuni sociologi che si sono chiesti se la fama, la ricchezza e il potere imposti come nuovi “valori” dal calcio professionistico arriveranno, grazie alla loro incidenza sociale, a condizionare la vita del nostro Paese. Altri studiosi affermano invece che il calcio «sta perdendo tutti i contenuti simbolici dato che in una società economizzata c’è sempre meno spazio per i comportamenti gratuiti». Civiltà cattolica ricorda come il Coni e una parte della società civile ritengono urgente elaborare un codice etico di autoregolamenteazione che precisi diritti e doveri di chi opera nel settore del calcio. Il quindicinale cattolico si chiede poi da dove iniziare, su quali principi fondare un codice etico e chi ha l’autorevolezza morale di proporlo. Il paesaggio degli attori in campo, si fa notare, è sconfortante se c’è anche chi perfino con il doping arriva a rischiare la propria vita.

Occhetta fa poi un’analisi dei costi finanziari del circo del pallone. Individua così, citando dati delle Università di Bologna e di San Marino, un buco di 414 milioni di euro. Molti club professionistici, afferma, sono sull’orlo del collasso non essendo in grado di pagare i debiti e gli stipendi ai giocatori. «Come si è arrivati a questo punto?» si chiede il gesuita. Egli dà un’indicazione netta: i costi del calcio italiano sono i più alti in Europa (in percentuale sui ricavi) in seguito alla sentenza Bosman che ha equiparato il calciomercato a qualsiasi contrattazione lavorativa. È stato limitato così il diritto di indennizzo dei club in caso di trasferimento del giocatore. La reazione delle società non si è fatta attendere e si sono mosse in più direzioni. Hanno ampliato la rosa dei giocatori, hanno prolungato la durata dei contratti, hanno aumentato gli stipendi e ridotto gli investimenti nei settori giovanili. Si è creato di fatto una gigantesca asta mondiale con al centro i giocatori superstar. Sono proprio questi che garantiscono infatti buoni contratti con gli sponsor e alti diritti televisivi.

Due le soluzioni indicate dagli analisti e citate nell’articolo di Civiltà Cattolica. La prima è vendere i diritti televisivi in quei mercati in cui l’interesse per il calcio è in forte aumento (Usa e Sud-est asiatico in primis). La seconda soluzione è la creazione di una «super lega» europea, con promozioni e retrocessioni, in cui giocano solo i migliori club di ciascun paese. Questo permetterebbe alle società più piccole, con ricavi dieci volte inferiori, di ridurre gli investimenti oggi troppo alti per stare al passo con i big nazionali.

Occhetta dice che però tutto questo non può bastare e sarà difficile trovare vie di uscita. Le soluzioni economiche non sono sufficienti, afferma l’estensore dell’articolo, fino a quando non si riconosce che la vera degenerazione sta negli stipendi troppo elevati dei giocatori professionisti. Ma anche nella nuova cultura calcistica promossa dai tanti programmi televisivi di calcio spesso fatti di «volgarità, di ricerca del successo e di superficialità». Le squadre dei ragazzi rischiano di diventare così piccole fabbriche di campioni e ai genitori si promettono già oggi guadagni sicuri. Diventa centrale a questo punto l’allenamento e non più la formazione scolastica oltre che umana dei ragazzi. Nei numerosi programmi televisivi dedicati al calcio manca una riflessione culturale sul calcio. Manca nei professionisti dell’informazione la passione per alcuni grandi valori come l’onestà e la lealtà.

Tutto questo non è indolore per il calcio. Dagli anni Ottanta la perdita di spettatori è del 40%. Durante lo scorso campionato si è registrata la media di presenze allo stadio più bassa degli ultimi 40 anni. Una delle cause principali individuate da Occhetta è la violenza negli stadi dove si può perdere la vita. Ogni domenica le partite di calcio si trasformano in un’emergenza per l’ordine pubblico se è necessario impiegare 11 mila membri delle forze dell’ordine per prevenire disordini e gli scontri.

«Che cosa fare? » si chiede infine Francesco Occhetta. Egli riconosce che siamo di fronte a una crisi dettata da un impoverimento dei legami sociali e familiari, espressione di una ricerca di identità e di una perdita di prospettive. Le risposte a questa situazioni non possono che essere complesse. Egli suggerisce, citando il giornalista del Sole 24 Ore Donaddio, che bisogna privilegiare la crescita sociale e comunitaria del calcio ridimensionando la faziosità e la partigianeria del tifoso italiano. Il gesuita chiude la sua riflessione con una domanda, rimandando alle responsabilità dei dirigenti del calcio tricolore: «Riesce l’attuale configurazione del calcio in tutti i suoi aspetti, culturale, organizzativo, economico, a permettere di far vivere ai calciatori e ai tifosi i corretti valori e le utilità proprie e imprescindibili dell’esperienza del calcio?».